Le opere di Muholi, tra arte, autoritratto e attivismo

img Muholi opere Aphelile

Muholi è una delle voci più interessanti del Visual Activism e con le sue opere indaga temi come il razzismo, l’eurocentrismo, il femminismo e le politiche sessuali.
Le sue opere fanno tutte parte di una serie di autoritratti che l’artista ha iniziato a scattare nel 2012 e che non si è ancora conclusa.

I suoi autoritratti sono nati da un profondo dolore e da un urgenza di denunciare ciò che non va. Recentemente sono stati esposti anche in Italia nella mostra Muholi. A Visual Activist.

Le opere di Zanele Muholi

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Muholi ama definirsi attivista, ancora prima di sentirsi, ed essere, artista.
Grazie alla fotografia e, in particolare, con la serie di autoritratti Muholi ha ottenuto un successo planetario e ha già esposto nei più prestigiosi musei del mondo.

In ogni sua immagine c’è la volontà di denunciare, inquietare lo spettatore e comunicare al mondo qualcosa di scomodo ma che va affermato con forza.
I suoi autoritratti sono un mezzo per affermare la necessità di esistere, la dignità e il rispetto cui ogni essere umano ha diritto, a dispetto della scelta del partner o del colore della pelle, e del genere con cui si identifica.

BIOGRAFIA DI MUHOLI

Per comprenderne la genesi e osservare il fluire in costante divenire della voce di Muholi, si deve fare un passo indietro e ripercorrere la sua biografia.

Zanele Muholi nasce nel 1972 in Sudafrica durante il periodo dell’apartheid, plasmata dalla violenza di quel regime e dalle sanguinose lotte per la sua abolizione. Presto si deve confrontare con le violenze riservate alla comunità LGBTQIA+, di cui fa parte. Violenze morali e fisiche, torture accompagnate spesso da sevizie e morte.
Per dieci anni Muholi combatte contro l’occultamento dei fatti e documenta fotograficamente gli orrori e gli assassini di innocenti, condannati a causa del proprio orientamento sessuale.

La prima serie di scatti artistici di Muholi documenta i sopravvissuti a crimini d’odio che vivevano in tutto il Sudafrica e nelle township. Sotto l’apartheid, infatti, furono istituite township separate, ovvero ‘aree residenziali’ segregate per le persone nere che venivano ‘sfrattate’ dai luoghi designati come “white only”. Qui venivano perpetrate violenze di ogni tipo, tra cui la pratica dello ‘stupro correttivo’, contro la comunità LGBTQIA+.
Negli anni Novanta il Sudafrica intraprese un cambiamento politico significativo. La democrazia venne stabilita nel 1994 con l’abolizione dell’apartheid, seguita da una nuova costituzione nel 1996, la prima al mondo a bandire la discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Nonostante questi progressi, la comunità nera LGBTQIA+ rimane ancora oggi uno degli obiettivi principali della violenza più brutale in Sudafrica.

Nel 2012, un anno particolarmente doloroso nel percorso di vita e artistico di Muholi, la sua lotta documentativa si interrompe bruscamente con un furto intimidatorio di tutti i suoi file non pubblicati.
Muholi prova uno strazio indicibile che, unito al ricordo di tutto il dolore che ha documentato, porta l’artista quasi a desiderare di morire. È in questo momento che Muholi reagisce, decide che la sua lotta personale deve continuare, ma in altri termini.

Gira la macchina fotografica verso di sé piuttosto che verso gli altri, decidendo così di esporsi in prima persona. Rinuncia alla propria identità di genere per rappresentare un’identità collettiva che dia voce alla comunità nera omossessuale attraverso la fotografia, e in particolare l’autoritratto. La macchina fotografica diventa così per Muholi un’arma di denuncia e contemporaneamente di salvezza.

« […] not many photographers like to see themselves in front of the camera. It takes me to spaces where I’m uncomfortable the most. I get to have conversations with myself in ways that I’ve never done before, which is another way of healing. » (… non molti fotografi amano mettersi davanti alla macchina fotografica. Mi porta in spazi in cui mi sento più a disagio. Riesco a conversare con me stess* in modi che non ho mai fatto prima, il che è un altro modo di guarire).

Nasce così nel 2012 il progetto artistico “Somnyama Ngonyama, Hail the Dark Lioness (Ave Leonessa Nera)”, la serie di scatti fotografici che il Mudec ha deciso di ospitare in questa mostra italiana, diventati anche un volume pluripremiato; un secondo volume è in corso di pubblicazione.

Da allora Muholi produce con costanza e coerenza una serie di potenti autoritratti, che stregano il pubblico in modo trasversale.

GLI AUTORITRATTI DI DI MUHOLI

C’è un’ossessività di fondo nell’arte di Muholi, dettata dalla potenza del suo messaggio artistico e di attivista che traspare dalla serialità assoluta dei suoi autoritratti, e dalla scelta della tecnica fotografica, in cui la preparazione allo scatto è già performance artistica.

Muholi sceglie ogni volta con cura meticolosa e costante il setting e la luce, prepara il soggetto allo scatto in maniera rigorosa e ossessiva, lavorando sui contrasti cromatici bianco-nero, ponendo a nudo il proprio corpo.

Muholi si mette in scena con l’uso surreale e metaforico di oggetti di semplice quotidianità. Copricapi fatti di soldi, collane ricavate da cavi della luce, mollette in testa e corone fatte di pneumatici, pinze e cordami vari interpretati come turbanti e sciarpe sono sempre utilizzati e indossati sul suo corpo in pose di sorprendente bellezza che ricordano spesso il fashion style di certe copertine patinate di moda.

I suoi occhi guardano spesso dritto in camera.
Attraverso un’immagine familiare eppure distorta, Muholi invita il pubblico ad andare oltre quello sguardo ipnotico, a superare il primo livello di lettura dell’autoritratto, per riflettere sull’identità nera collettiva, con un effetto che sorprende per la forza evocativa del messaggio.

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Muholi rievoca l’Africa nera esotica attraverso il primo sguardo ‘patinato’, ma a un secondo livello di lettura ci si accorge della rivisitazione in chiave di denuncia, spesso delle torture e sevizie subite dalle comunità nere LGBTQIA+, come succede nell’opera Ziphelele (Parktown, Johannesburg, 2016), dove l’uso degli pneumatici d’auto come collane rimanda alla tortura della collana, un metodo di esecuzione sommaria extragiudiziale eseguita stringendo uno pneumatico di gomma inzuppato di benzina attorno al petto e alle braccia di una vittima e dandogli fuoco. Il termine “collana” ha avuto origine negli anni ’80 nelle township nere del Sud.

Africa dell’apartheid, dove sospetti collaboratori dell’apartheid venivano giustiziati pubblicamente in questo modo.

img opere Muholi

I suoi scatti intavolano una conversazione ininterrotta con il mondo per denunciarne i soprusi, la violenza, l’ingiustizia a ogni possibile livello. Un discorso senza fine sulle proprie emozioni, sull’ingiustizia da correggere, sull’educazione da offrire alle nuove generazioni affinché le cose cambino, come nello scatto Ntozakhe II (Parktown, Johannesburg, 2016), dove lo sguardo di Muholi è rivolto in avanti, oltre, verso un futuro di speranza e di libertà.

Al lavoro esistenziale e autobiografico iniziato con Somnyama Ngonyama, oggi il messaggio di denuncia di Muholi affianca il gene della speranza, di una via alla positività, con il pensiero che di fronte a tanto dolore sia fondamentale la celebrazione della vita, in ogni suo aspetto.

Muholi ha iniziato nel tempo e sta lavorando tuttora a un secondo importante corpus di immagini, “Faces and Phases”, in cui è tornata a ritrarre i componenti della sua comunità LGBTQIA+, non più come vittime ma come pieni protagonisti della loro esistenza, del loro talento, della loro forza e bellezza.
Una collezione che ha creato un forte senso di appartenenza nella comunità.

« I don’t want to say all is doom and bleak. I wanted to say that there is hope and change will come. Nobody ever thought that apartheid will be over in South Africa, it took time, yes, let me acknowledge this violence but I shouldn’t forget that there is love, yes, it’s hard it’s really hard, but thisshallpass.» («Nonvogliodirechetuttoètristeetetro.Volevodirechec’èsperanzaeche il cambiamento arriverà. Nessuno ha mai pensato che l’apartheid sarebbe finita in Sud Africa; ci è voluto del tempo, sì, lasciatemi riconoscere questa violenza, ma non bisogna dimenticare che c’è l’amore. Sì, è difficile è davvero difficile, ma tutto questo passerà.»)

Tra la fine del 2022 e gli inizi del 2023 Muholi ha deciso di perdere il suo nome (Zanele) mantenendo solo il cognome, e di proseguire nel suo percorso personale di autodefinizione che passa dalla rinuncia prima del genere e poi del nome che comunque avrebbe continuato a identificare una persona singolare, giungendo a definirsi pienamente solo attraverso l’uso del pronome “loro”.
Una scelta che questa mostra ha deciso di condividere in pieno nell’uso di un linguaggio più consono possibile.

Zanele Muholi ha scelto, dunque, di definirsi al plurale, usando il loro piuttosto che il lui o lei, ma non è né un collettivo né un gruppo di artisti.
Poiché questa società chiede alle persone di decidere di appartenere a un genere, Muholi ha scelto quello non binario. Non lei/lui, ma ‘loro’.

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