Nelle opere di Giorgio Vazza, tra land-art e memoria condivisa – STUDI D’ARTISTA
Con Studi d’Artista questa volta ci spostiamo in montagna, tra le acque del Lago di Santa Croce e i sentieri dell’Oasi Naturalistica di Farra d’Alpago, per incontrare Giorgio Vazza, artista poliedrico che intreccia natura, memoria e comunità. La sua arte nasce da un dolore profondo, quello della tragedia del Vajont, e si trasforma in installazioni fatte di legno, terra e silenzio.
Un viaggio intenso, umano, commovente.
E se hai perso l’intervista precedente, ti consiglio di leggere anche il racconto di Kevin Niggeler, tra identità e tecnica.

STUDI D’ARTISTA
Viaggio in Italia alla scoperta degli artisti contemporanei
a cura di Laura Cappellazzo
Ho conosciuto Giorgio Vazza il 19 luglio, durante l’inaugurazione della sua ultima installazione realizzata all’interno del progetto ormai quindicennale del Comune di Alpago (BL), di un laboratorio estivo di Land Art con il Gruppo Operativo Giovani. Le installazioni di rami intrecciati salutano i visitatori del sentiero centrale dell’Oasi Naturalistica del Lago di Santa Croce a Farra D’Alpago che porta fino al lago.
La mattinata è stata splendida: il gruppo di ragazzi ha presentato il percorso di quest’anno, le figure istituzionali si sono dette orgogliose di un progetto che porta bellezza al territorio riuscendo a coinvolgere dei giovani adolescenti, l’artista Vazza era visibilmente commosso.
Ciò che mi ha colpito di più, subito dopo la bellezza delle opere installate in un contesto naturalistico meraviglioso, è stato il forte senso di comunità creatosi attorno a questo progetto artistico e alla figura di Vazza. È stato come toccare con mano la potenza dell’arte, che oltre ad essere un messaggio estetico di portata universale, può anche tessere relazioni e sensibilizzare alla cura di un territorio.
Giorgio Vazza, oltre che un artista stimato e riconosciuto, è anche una persona molto gentile e disponibile, e generosamente ci ha regalato una sua intervista.
NELLO STUDIO DI GIORGIO VAZZA
Buongiorno Vazza, grazie per la sua disponibilità e per accettare di farsi conoscere dai nostri lettori. Cominciamo subito dalle presentazioni: chi è Giorgio Vazza?
Sono un artista… perché l’arte mi ha sempre coinvolto fin da bambino, in un modo molto intimo, come una necessità personale. E infatti per raccontarmi devo partire da un vissuto molto personale: ora vivo a Sitran d’Alpago, ma sono nato a Longarone, nel borghetto di case Muda Maè. Avevo 11 anni quando c’è stata la tragedia della diga… non le dico cosa ho visto… una desolazione immensa. Ci siamo salvati come famiglia dall’inondazione, ma abbiamo perso tutte le nostre persone più care: amicizie, parenti… solo sotto a casa mia c’erano 35 cadaveri. Mio nonno è venuto a prendermi: ricordo che ho attraversato le macerie, con i morti dappertutto; mia mamma mi teneva in braccio diceva di non guardare.
Questo è stato qualcosa di forte che mi è successo, un tormento che mi ha accompagnato per tutta la vita, ma di cui non sono mai riuscito a parlare. Nel 2013, un amico mi ha regalato un rotolino di carta di 100 metri: ho iniziato a disegnare quello che mi ricordavo, tratti veloci, era come respirare. Sudavo mentre disegnavo… è stata un’esperienza fortissima, trasformata in una serie di disegni a matita, figure appena abbozzate dai volti vacui e paesaggi sottili. Nel 2018 ho trasferiti quei bozzetti in piccoli scatole, ne ho fatte 7, come una scatola nera dell’aereo. È stato un momento di svuotamento, un momento però necessario. Anche qui nella Land Art dell’Oasi ho dedicato un’opera al Vajont: si intitola “V come Veste – V come Vuoto – V come Vajont” e ricorda i sudari delle salme. Perché vede, sotto ad ogni mia opera c’è un pensiero, c’è qualcosa di molto profondo che voglio esprimere.
E dove si è formato, per arrivare a questo; cioè a riuscire a trasmettere questi suoi pensieri?
Sono autodidatta. A Castellavazzo, nel paesino dove vivevo, tutte le estati arrivava Sirio Sanibeni, artista di Firenze e io mi mettevo lì vicino a lui e guardavo. Così iniziai a dipingere. Ho frequentato anche Domenico Bettio, artista di Ospitale di Cadore e per molti anni, da ragazzo, tutti i venerdì andavo all’Arte Centro di Longarone, luogo in cui ho potuto approfondire la tecnica e frequentare altri artisti.
Lei utilizza molte forme artistiche, anche molto diverse tra loro: la pittura, il disegno, i libri-oggetto, le installazioni di Land Art, da poco ha avviato una collaborazione con il Musinf (Museo d’Arte Moderna, dell’Informazione e della Fotografia) di Senigallia per delle opere in marmo…ma qual è stato il suo primo amore artistico?
La pittura, sicuramente. Ricordo che da piccolino, a Muda Maè c’era un antico ponte romano. Un giorno rimasi abbagliato da un pittore che veniva su, nelle mie montagne con il cavalletto, e si metteva a dipingere il paesaggio. I movimenti che faceva, la magia per cui il panorama si trasferiva dalla vista alla tela, la tecnica del colore per dare la prospettiva… ricordo che rimasi affascinato.
In quegli anni i bambini come me venivano mandati in colonia al mare. A me non piaceva partire, odiavo quella valigia…lasciare la mia famiglia, avevo nostalgia. Ma disegnavo il mare, le barche… e questo mi dava un po’ di conforto.

Giorgio Vazza
La nostra rubrica si chiama “Studi d’Artista”: posso chiederle com’è il tuo studio?
(Sorride, ndA). Il mio studio? Ne ho più di uno! Perché ormai avevo invaso la casa e mia moglie mi ha mandato nella stalla affianco, a poche centinaia di metri da casa, dove c’era ancora il fienile nel piano superiore. Lì faccio più lavori di pittura, anche per l’odore della pittura, dell’acquaragia, dei diluenti… se sono a casa si impregna tutto di quell’odore. Nella stalla, che ho riadattato nel tempo, sono libero di creare e usare i materiali che mi servono senza disturbare nessuno.
La sua pittura è scarna: si basa sui colori sugli spazi ampi, panorami dei tuoi monti e infonde pace. E infatti qualcuno ha definito la tua arte pittorica come “gentile, aerea, quasi impalpabile”. Ce ne vuole parlare?
Per me il disegno è come un respiro, è immediato e non ho tante cose per la mente. Cerco di fare il mio meglio, ma è soprattutto immediato.
Con la pittura invece cerco i rapporti e gli equilibri tra i colori, è qualcosa di più pensato. E mi piace lavorare sul quadrato, quindi è qualcosa di mediato anche dallo spazio fisico. La montagna mi da pace, mi da serenità ed un soggetto che dipingo spesso. Per realizzare il ciclo “Pascoli vaganti” ho seguito per due anni mio nipote che ha un gregge, fa il pastore. Lui è un solitario come me. È stato bellissimo seguirlo; ho capito che il lavoro del pastore è come il lavoro dell’artista: sei solo tu con quello che devi fare. Come me quando disegno, come lui con le sue pecore, come lei quando scrive; siamo soli davanti alle decisioni che dobbiamo prendere: che tratto uso? che pascolo scelgo per fermarmi? che parola utilizzo? Per me è stata davvero un’esperienza forte, di contatto con la montagna, che è bellissima, ma anche faticosa, a volte crudele persino.
E invece, le tue installazioni di Land sono molto fisiche, fatte di legno, pietre, rami… Ci spiega cos’è la Land Art e perché l’ha scelta come laboratorio con degli adolescenti?
Anni fa avevo fatto un laboratorio di pittura nelle scuole ma è stata un’esperienza difficile perché il lavoro di gruppo è complicato. E poi a volte i ragazzi avevano delle situazioni molto brutte in famiglia, che poi trasmettevano con dei disegni molto forti, con cui andavo in risonanza e ho pensato di non continuare. Nel 2017 mi hanno riproposto di fare un laboratorio artistico con i giovani ma io ho pensato di fare Land Art… così almeno se si rompeva qualcosa non era un danno! Il nido è stata la nostra prima installazione, e loro stessi lo hanno vissuto come una culla di vita, come un messaggio di cura dello spazio in cui vivevano. È proprio quello che vorrei trasmettere con le mie installazioni: portare alla meditazione, al pensiero, distogliersi dai luoghi affollati e andare in profondità in noi stessi.
Io non ho avuto la fortuna di avere adulti che seminassero in me delle idee, dei pensieri. Spero tanto di fare questo con loro. E poi guardi, (indica le persone presenti intorno a noi, ndA) ci sono nonni, genitori che portano la merenda… si è creata una comunità. Anche perché non sai quanto mangiano questi ragazzi! Mi trovo bene con loro. Ci sono degli adulti che li sorvegliano, mentre facciamo dei lavori. Loro imparano a rispettare i tempi, a svolgere dei compiti, a riconoscere gli alberi, il legno. Si sentono che sono capaci di realizzare qualcosa di bello.
Ci racconta il processo di realizzazione di un’opera come queste?
Scelgo il soggetto a seconda del messaggio che voglio dare: quest’anno era la barca, simbolo dell’andare in profondità, di non stare in superficie. Nel mio studio traccio uno schizzo e immagino le misure. Poi nel luogo fisico si picchetta: se si ha in mente 7,5 metri di barca, per esempio, si deve pensare ai pali che devono sostenere dal suolo, legati con filo di ferro. Uso pali di acacia che durano nel tempo. Con dei rami di nocciolo presi qui, dal bosco, si fanno le curvature e poi si lega con il filo di ferro. Nel mentre guardo molto l’armonia, l’armonia dell’opera, la sezione aurea… che ai ragazzi ho insegnato a misurare con le tessere del bancomat… Prima quindi si fa lo scheletro e la struttura portante e poi con nocciolo e larice riempiamo l’opera.

Due sue affermazioni mi hanno colpito molto: “le opere di land art sono di tutti, uno non le può comprare e portarle a casa, ma appartengono al territorio in cui si trovano”. E ancora: “quando un’opera di land art si distrugge per le intemperie, va bene, fa parte del processo perché quanto abbiamo preso dalla natura per creare l’opera, è tornato alla natura”.
Le chiedo se può approfondire queste dinamiche tra installazione e territorio, tra uomo e natura e arte…
Quando si crea un’opera di Land Art, si prende in prestito del materiale dalla natura. Poi quando l’hai fatta non è più tua: è del territorio, che la cambia e la plasma. È un continuo cambiare che muta, che evolve; è arte effimera che cambia con i colori della stagioni, con le intemperie… Se uno passeggia in quei luoghi si lascia affascinare da queste opere, ed è portato a meditare, a creare pensieri.
E’ quindi questo il senso di fare arte per lei?
Per me l’arte è un qualcosa che mi fa stare bene. Se ci pensa, noi viviamo in un’era drammatica. L’arte deve comunicare qualcosa a noi che viviamo in questi tempi. L’arte è il termometro della società, racconta ciò che siamo. La politica è cieca, l’arte invece ci vede benissimo e cerca di trasmettere dei messaggi per far riflettere: sulla vita, sul tempo, sulla natura…
Post a cura di: Laura Cappellazzo

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