Nelle opere di Valerio Zezur: materia, verità e riscatto – STUDI D’ARTISTA

18/07/2025
Autore: Caterina Stringhetta
Tag: Interviste

Continua il viaggio negli studi degli artisti contemporanei italiani. L’ultima volta abbiamo conosciuto SMOE nel suo studio, mentre oggi ci prepariamo a conoscere un nuovo artista con una storia faticosa ma affascinante.

Questa volta Studi d’artista ci porta nell’universo di Valerio Zezur, dove l’arte è carne viva, urgenza, trasformazione. Valerio non dipinge per decorare, ma per respirare. La sua è una storia dura, attraversata da dolori profondi, rinascite e viaggi reali e interiori, ma è proprio da lì, da quel caos vissuto e trasformato, che nascono opere potentissime, materiche, sincere.

Valerio Zezur art

STUDI D’ARTISTA

Viaggio in Italia alla scoperta degli artisti contemporanei

a cura di Caterina Stringhetta

Quella con Valerio Zezur non è un’intervista come le altre, ma un viaggio crudo e luminoso, dentro un vissuto che fa male e dentro un’arte che salva. In queste risposte ci sono i dolori, ma anche la forza per superarli, la resistenza di chi ha capito che la trasformazione è il solo modo per salvarsi.
Ho voluto condividere questo incontro per restituire la voce di un artista che non cerca di piacere, ma di dire la verità.

Questo è un racconto necessario, che ci ricorda che l’arte non è mai solo forma: è carne, è urlo, è possibilità di esistere.

NELLO STUDIO DI VALERIO ZEZUR

Valerio, nel tuo sito ti presenti come un artista dal passato complesso. Possiamo partire da qui? Qual è la tua storia in breve e quando hai capito che l’arte era il tuo modo per restare in piedi?

Sì, è vero… Ho perso mia madre che ero ancora piccolo, l’ho trovata io, e quello è un ricordo che mi si è inciso addosso come un marchio. Mio padre era un uomo complicato, distrutto più dalla vita che dall’alcol e, dopo una lite finita male, è stato portato via davanti ai miei occhi. In pratica, nel giro di poco tempo, mi sono ritrovato da solo con mio fratello, in un orfanotrofio, in mezzo al freddo di un Paese che sembrava dimenticato da Dio. Poi l’Italia un miraggio, la Sicilia (meravigliosa) con una famiglia adottiva che purtroppo dopo aver scoperto il mio essere omosessuale mi ha rifiutato rimandandomi in altre comunità, la strada, un padre affidatario che purtroppo non era un padre ma ero per lui un po’ il trofeo dei desideri, poi la Lombardia, la grandissima città e oggi il Veneto, una nuova vita e una famiglia non di sangue ma di cuore.

Per molto tempo ho vissuto in modalità “sopravvivenza”. Non sapevo nemmeno chi fossi, ma poi, col tempo, ho scoperto che disegnare era come respirare. Che quando avevo una matita o un colore in mano, il dolore non spariva… ma si trasformava. Quella trasformazione era tutto. Era forza. Era libertà. Era il modo per non crollare.

L’arte per me non è mai stata un hobby. È stata salvezza. Ancora oggi, ogni opera nasce da un’urgenza, da una voce dentro che mi spinge a tirar fuori qualcosa che altrimenti mi consumerebbe e ogni volta che qualcuno guarda un mio quadro e si commuove, o si rivede, sento che tutto quello che ho passato non è stato inutile.

Ho capito che restare in piedi non è scontato, ma se riesci a trasformare la tua storia in qualcosa che parla anche agli altri, allora, forse, stai dando un senso vero a tutto il dolore.

La tua storia attraversa l’Ucraina, la Sicilia, la Lombardia, il Veneto. In che modo questi luoghi – e i loro contrasti – sono entrati nelle tue opere?

Sì, è vero… la mia storia attraversa tanti luoghi, e ognuno si è portato via un pezzo di me, ma allo stesso tempo mi ha lasciato qualcosa addosso. L’Ucraina è la mia origine, è il freddo che sento ancora dentro certe notti, è il silenzio dell’infanzia che torna nei momenti in cui mi chiudo in studio e il mondo fuori scompare. È terra, è sopravvivenza, è fame, è il profumo del pane che mia madre impastava anche quando c’era pochissimo da mettere a tavola. Nei miei quadri l’Ucraina è il fondo scuro, è la materia ruvida, è il graffio.

Poi la Sicilia… quella è stata una tempesta. Lì ho visto i colori esplodere, le voci alzarsi come onde. Ho imparato cosa vuol dire sentirsi diversi e cosa vuol dire anche sentirsi abbracciati, quando meno te lo aspetti. È il rosso caldo, l’oro mescolato alla rabbia, è l’odore del mare che si attacca ai vestiti e non se ne va più. La Sicilia ha portato nel mio modo di dipingere la forza di chi, anche se cade, si rialza con un urlo.

La Lombardia invece… è stata un passaggio più rigido. Più razionale. Forse lì ho cercato di mettere ordine nel caos, di capire se potevo diventare “qualcuno” agli occhi degli altri, anche se dentro avevo ancora troppi pezzi sparsi, ma è anche dove ho iniziato davvero a costruire, a dare forma al mio stile, a unire la tecnica all’emozione.

Il Veneto, e in particolare il Delta del Po, è dove ho ritrovato il respiro. Dove ho capito che potevo raccontarmi senza dover urlare per forza. Qui è nato qualcosa di nuovo, quasi come una seconda pelle. Ho scoperto che l’arte non è solo sfogo, ma anche carezza. Che si può trasformare il dolore in bellezza, non per nasconderlo, ma per farlo vibrare in un altro modo.

Ogni luogo ha lasciato un colore diverso sulla mia pelle e sulle mie tele. E io non ho fatto altro che accettarli tutti. Mescolarli. Renderli parte di me. Perché in fondo, ogni volta che cambio città o apro una nuova tela, sto cercando sempre la stessa cosa: un posto in cui sentirmi davvero a casa.

Dici che non cerchi di piacere, ma di dire la verità. Cosa significa per te “verità” in un’opera d’arte?

Per me la verità in un’opera d’arte non è una definizione, ma è una sensazione che ti prende lo stomaco. Non ha bisogno di spiegarsi, la senti. È quel momento in cui qualcosa dentro di te vibra perché riconosce un pezzo di sé in quello che vede. Io non creo per abbellire pareti, non mi interessa l’estetica fine a se stessa. Creo per raccontare ciò che non si dice, per dare forma a ciò che brucia sotto la pelle.

La verità, per me, è non aver paura di mostrare il caos. È accettare che dentro di noi convivano dolore e speranza, rabbia e amore, fragilità e potenza. Quando dipingo, non penso mai: “questa cosa piacerà?”. Penso: “questa cosa è vera per me?”. E se lo è, allora ha il diritto di esistere, anche se disturba, anche se non è comoda.

Un’opera vera non ha bisogno di piacere. Ti guarda. Ti parla. Se sei pronto ad ascoltarla, ti cambia. Ecco, io voglio che chi guarda una mia opera si senta dentro un’emozione e magari quando la guarda trova la forza, poi può piacere o meno, del resto penso che la bellezza sia sempre soggettiva, sicuramente non ho e non avrò mai le doti dei grandi maestri con le loro tecniche immense.

Valerio Zezur artist

Ogni tuo lavoro nasce da un’urgenza emotiva. Come si traduce questa urgenza in un processo concreto? Da dove inizi quando crei una tua opera?

Non ho mai un punto fisso da cui parto. A volte comincia tutto da un segno di matita, quasi timido, come se stessi cercando di afferrare qualcosa che ancora non ha un volto. Altre volte invece è un’esplosione: prendo il gesso, il ferro, la rete, lo spray… e comincio a graffiare la tela, come se stessi gridando. È l’istinto a guidarmi. C’è sempre un momento preciso, inspiegabile, in cui sento il bisogno fisico di avere davanti una tela o un foglio. È come se non riuscissi più a respirare senza.

Poi però ci sono anche i giorni in cui non voglio vedere nulla. Mi allontano, non tocco niente, come se l’urgenza si fosse spenta per un attimo. Non riesco mai a creare qualcosa se non ho qualcosa dentro che spinge per uscire. Non so fingere nell’arte. Infatti, a scuola, quando mi chiedevano di copiare un disegno o riprodurre qualcosa “solo per esercizio”, andavo in crisi. Mi sentivo vuoto. Anche se sapevo che serviva, mi sembrava di perdere tempo. Per me l’arte non è mai tecnica: è carne viva, è necessità. Anche se oggi non nego che la scuola mi ha aiutato molto a dar volto alle mie emozioni a conoscere i materiali i colori.

I tuoi materiali – cemento, corde, metallo, gesso – hanno un peso, un’energia propria. Come li scegli? E come decidi che una combinazione “funziona”?

Scelgo i materiali come se scegliessi un linguaggio. Ogni pezzo che uso – la rete metallica, il gesso, il legno, il cemento – ha una sua voce. La rete, per esempio, è geometrica, rigida, mi ricorda le città, i grattacieli, la vita che ti stringe ma ti tiene in piedi. Cerco sempre materiali di recupero, perché anche loro hanno avuto una vita prima, un passato che resta inciso addosso… proprio come me. Poi li tocco, li sento. Se mi parlano, se mi restituiscono un’energia vera, li tengo. Per il colore invece vado a istinto: uso acrilici, spray, sfumature che mi piacciono, che mi scuotono dentro. Quando sento che tutto – materia, gesto, colore – crea un’emozione, allora capisco che “funziona”.

Parli spesso di “istinto”, ma c’è comunque una ricerca dietro le tue opere? Usi bozzetti, studi, prove, oppure vai diretto sul pezzo?

Raramente faccio bozzetti, non ne sento il bisogno. È come se l’opera nascesse già dentro di me, in una forma grezza ma viva, e poi fosse solo questione di metterla su tela. A volte cerco delle immagini sul web, ma non per copiarle… piuttosto per capire delle proporzioni, per avere una base da deformare, da stravolgere a modo mio. Non mi piace rifare qualcosa due volte: la prima volta è sempre quella che ha l’emozione più forte. Anche gli errori, quando ci sono, per me hanno senso. Sono parte del processo, e forse proprio per quello riescono a trasmettere qualcosa. Per me, anche un errore può essere un’emozione.

Valerio Zezur opera

Qual è il rapporto tra colore e materia nelle tue opere? Viene prima uno dei due, o si influenzano a vicenda?

Per me viene prima la materia. Ho bisogno di toccarla, di darle una forma, di sentirla sotto le mani. È da lì che parte tutto. Solo dopo arriva il colore, che è come se desse voce a quello che ho costruito. Il colore non lo scelgo mai a caso: è sempre legato a quello che sto vivendo in quel momento. Non cerco per forza la bellezza o la gioia… a volte c’è dentro dolore, morte, caos. Altre volte, invece, uso l’oro. Lo uso spesso. Per me l’oro è perfezione, è eleganza, è qualcosa che va oltre… è il materiale nobile, quello che riesce a nobilitare anche le crepe, anche le ferite. E in fondo è questo che cerco di fare: trasformare le crepe in qualcosa che brilla.

C’è un artista – contemporaneo o del passato – con cui senti un’affinità tecnica o emotiva? Qualcuno che ti ha aiutato, magari inconsapevolmente, a trovare la tua voce?

Non c’è un singolo artista con cui sento un’identificazione precisa. Amo l’arte, amo chi ha lasciato un segno profondo, ma cerco di non avere riferimenti diretti, perché temo l’influenza. Voglio che ciò che creo venga da dentro, in modo puro, istintivo. Però, certo, ci sono artisti che ammiro profondamente. Del passato, sento qualcosa di mio nelle esplosioni materiche di Jean Dubuffet, nella potenza emotiva di Egon Schiele, nella spiritualità tormentata di Francis Bacon. Tra i contemporanei mi colpiscono le materie vibranti di Anselm Kiefer, la brutalità poetica di Antony Gormley, o l’intimità urbana di JR. Mi ispirano, ma non voglio assomigliare a nessuno. Cerco la mia voce. Voglio che chi guarda le mie opere senta che lì dentro c’è solo Valerio, e nessun altro.

Ci sono artisti nel territorio in cui vivi ora con cui sei in contatto e che ammiri?

Purtroppo nel territorio in cui vivo ora non ho ancora avuto modo di entrare davvero in contatto con molti artisti in senso stretto. Però grazie alle mostre e soprattutto ai mercatini – che spesso vengono sottovalutati o addirittura demonizzati – ho conosciuto tantissime persone creative, autentiche, piene di talento. Alcuni di loro realizzano cose incredibili, magari lontane dalla mia forma espressiva, ma che parlano comunque con forza e verità. Li ammiro, perché non è facile esporsi, mettersi in gioco, soprattutto quando si viene dai margini. Credo che ci siano molti artisti silenziosi, magari non ancora “scoperti”, che hanno dentro una luce potente e a volte, anche un solo scambio, un sorriso, un racconto accanto a un banchetto, può diventare ispirazione.

Ti andrebbe di accompagnarci idealmente nello studio di un artista a cui farebbe piacere ricevere la nostra visita? Chi ci vuoi indicare?

Forse sembrerò un po’ strano, magari persino contraddittorio rispetto a quanto detto prima… ma in questi ultimi tempi mi sono ritrovato ad ammirare molto alcune opere di Mark Kostabi. Quelle sue figure senza volto, corpi stilizzati ma carichi di significato, mi parlano in un modo molto personale. Mi ricordano mio padre. O meglio, l’assenza del suo volto. Non ho nemmeno una sua foto e il tempo ha cancellato dalla mia memoria ogni linea del suo viso. Così quando guardo certe opere di Kostabi è come se vedessi anche lui: una presenza concreta ma senza identità definita. Ecco, mi piacerebbe entrare nel suo studio, vedere come la sua mente e le sue mani riescono a creare quelle immagini così potenti partendo da un’assenza. Un artista contemporaneo, moderno, capace di raccontare l’anima anche quando il volto non c’è. Un po’ come cerco di fare io, quando lascio che siano le forme, la materia, il gesto, a parlare al posto di un’identità precisa. Perché a volte, non serve un volto per raccontare la verità.

Post a cura di: Caterina Stringhetta

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