Intervista a Jago: arte, visione e il coraggio di creare – STUDI D’ARTISTA

21/11/2025
Autore: Caterina Stringhetta

Ci sono incontri che non si dimenticano e questo è uno di quelli.
Studi d’artista oggi si apre a una conversazione speciale con Jago, un artista che non ha bisogno di essere presentato, ma che ha accettato di raccontarsi, davvero.

Quello che leggerai non è solo un dialogo, ma un incontro reale con un uomo, e un artista, che non si limita a scolpire la materia, ma scolpisce visioni, domande, possibilità.
Incontrarlo e parlare con lui significa interrogarsi sul senso di creare, di fallire, di ricominciare.
Significa guardare l’arte come gesto vivo, come atto di nascita, come promessa.
Oggi ho il privilegio di pubblicare l’intervista più intensa di sempre.

Jago artist

STUDI D’ARTISTA

Viaggio in Italia alla scoperta degli artisti contemporanei

a cura di Laura Cappellazzo

Come si fa ad intervistare un artista come Jago? Di fama internazionale, sempre in giro per il mondo a progettare, creare, a immaginare visioni e prospettive che ogni volta ci lasciano meravigliati e affascinati.

Come si fa ad arrivare a Jago, l’artista che si racconta sui social, che fa entrare i suoi centinaia di migliaia di follower nel backstage della realizzazione dell’opera… trasformando anche il processo creativo in arte.

Come si fa? Basta chiedere. Perché dietro all’artista Jago, c’è Jacopo Cardillo, un giovane uomo dall’aria inquieta e dal cuore generoso. Perché affianco a Jago c’è uno staff di persone che fanno le giravolte pur di rendere possibile un’intervista, anche se avviene nella sala di attesa di un aeroporto.

Solo per dare qualche idea a chi per caso non lo conoscesse ancora, Jago è definito il Michelangelo contemporaneo dal Guardian: a febbraio 2025 è stata inaugurata l’esposizione della David (modello in gesso) presso le Gallerie d’Italia a Napoli, da aprile è presente nel padiglione Italia ad Expo Osaka 2025 con l’opera Apparato Circolatorio, a maggio ha inaugurato la mostra NATURA MORTA Jago e Caravaggio, due sguardi sulla caducità della vita presso la pinacoteca della Veneranda Biblioteca Ambrosiana a Milano. La sua Venere è anziana e calva, il suo Narciso è un uomo che si specchia in una donna, il suo Figlio Velato si ispira al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, David è una ragazza.
Le sue opere si trovano al Thomas Paine Park nel cuore di New York, come nel deserto degli Emirati Arabi, o in orbita sulla Stazione spaziale internazionale. Oppure allo Jago Museum, inaugurato il 20 maggio 2023 nella Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi nel rione Sanità a Napoli, dove l’artista ha anche il suo studio principale.

NELLO STUDIO DI JAGO

Buongiorno Jago, e grazie per dedicare un po’ di tempo ai nostri lettori. Per approfittare al meglio di questo momento e non cadere nelle “solite” domande, pensavo di partire da alcune frasi che lei ha detto, e cercare di approfondirle un poco. Ci sta?
Ecco la prima. Mio padre era architetto e scenografo, mia madre insegnante di educazione artistica alle medie. Sapevano spiegarmi i grandi maestri umanizzandoli.” Quindi l’arte era di famiglia a casa vostra?

Intanto ci tengo a precisare che l’affermazione del Guardian è la prova del fatto che anche i migliori a volte sbagliano o non sanno proprio di che cosa stanno parlando…

Detto ciò sì, possiamo dire che io sia cresciuto in un contesto sensibile, attento, non soltanto in generale al mondo dell’arte, ma in particolare alla sensibilizzazione dei figli su temi come la bellezza.
I miei genitori sono stati capaci di accompagnare sia me sia mio fratello, di assecondare entrambi nelle proprie predisposizioni, che si sono sempre manifestate in modo creativo, per così dire, quindi questo è stato un grande vantaggio. Poi c’è di fatto la personalità dell’individuo, in questo caso la mia, che ha sempre avuto la necessità di imporsi e di trovare in maniera del tutto autonoma la propria identità e la propria strada al fine di essere felice e quindi, in giusta misura, realizzato.

Davanti a me ci sono 7 miliardi di Artisti e io so di essere l’ultimo, ma questo non rappresenta né un problema né un ostacolo perché sto andando esattamente nella direzione opposta”.
Come
si fa ad avere questa grande auto consapevolezza? Io scrivo, e le confesso che se penso alle migliaia di libri che vengono pubblicati ogni anno in Italia, un poco di apnea mi viene…

Queste parole sono il risultato di una presa di coscienza che ha a che vedere con la realizzazione personale, con la ricerca della propria identità, con la consapevolezza di dover necessariamente manifestare un sentimento totalmente libero, folle e innamorato che è quello del bambino che mi abita e grazie al quale poi riesco ad intercettare delle immagini che poi trasformo in idee e che attraverso l’uso della mano poi restituisco ad un pubblico e quindi condivido sotto forma di un valore tangibile, nel mio caso, essendo scultura, tridimensionale. Quindi in realtà è una questione molto semplice, è molto di più quello che ho da acquisire in termini culturali che quello che ho da restituire.
Quello che si vede e ciò che faccio è il niente, in confronto al desiderio che ho di riempire un abisso.

Chiunque sia creativo ha il dovere dell’arte”. Forse si collega alla domanda precedente, ma ci spiega questo dovere?

Per quanto mi riguarda il significato della parola arte, è semplicemente il fare, che è quindi collegato inevitabilmente alla parola creatività.
La creatività, se vogliamo dargli una definizione, andare alla radice di un significato che mi riguarda, possiamo scomporla in tre ingredienti fondamentali, che sono: l’idea, la trasformazione dell’idea attraverso il fare e infine la condivisione. Questi tre ingredienti sono esattamente sovrapponibili ad altri tre ingredienti che hanno a che fare con la gestazione. Quindi il lavoro dell’artista è sovrapponibile al lavoro di una madre, che per mettere al mondo un figlio, quindi per condividerlo, darlo, restituirlo, ci deve essere inizialmente un concepimento, poi ci deve essere una gravidanza, e quindi ci deve essere poi un parto. E questo è esattamente il lavoro dell’artista, il creativo che si occupa d’arte, capisce, secondo me, molto bene che cosa vuol dire essere madre, portare in grembo un’opera d’arte. E non ci si può sottrarre a questo meccanismo naturale. E se non ti puoi sottrarre nel momento in cui avviene questo concepimento, lì si innesca un senso del dovere irrinunciabile, che ti accompagnerà inevitabilmente ovunque andrai.

Quindi non esisteranno vacanze capaci di distrarti dal tuo bambino, dall’idea. Non esisterà distrazione alcuna. Dovrai essere anche in grado di esercitare l’amor proprio al fine di poter restituire il risultato migliore possibile e garantire un futuro ideale alla tua opera d’arte. Ecco, quindi il dovere per questo motivo. Quando ci si scopre genitori, quindi generatori, inevitabilmente ci si deve rimboccare le maniche e coltivare un gran senso del dovere ai fini della realizzazione dell’opera d’arte.

Look Down Jago

Jago, Look Down

Nel mio staff preferisco avere chi ha fallito. Perché noi domani cadremo e così avrò l’aiuto di chi è già caduto”. Questa frase mi ha colpito molto, perché lavorando nel sociale, la forza “degli sbagliati” è qualcosa che capisco immediatamente. Lei come è arrivato a questa consapevolezza?

Per la mia generazione, io sono classe 1987, basta vedere la tipologia di atteggiamento imprenditoriale aziendale che si ha nei confronti della novità e del nuovo assunto. Deve avere esperienza, si dice, e quindi si è in un bug di sistema che impedisce l’ingresso a chiunque.
Abbiamo creato una classe dirigente anziana perché il giovane non può fare esperienza, non può accedere perché non l’ha ancora fatta e quindi non verrà mai assunto. Semplicemente investirà i soldi dei genitori per andare a studiare e poi eventualmente si ritroverà a fare altro.
Oggi i giovani che riescono a insistere in una professione che corrisponde ai propri investimenti giovanili è piccolissima e quindi si vive una grandissima frustrazione.

Io invece preferisco il percorso condiviso, perché ho fatto esperienza in tenera età del fallimento in moltissime occasioni, e devo dire che mi piace anche, perché so che l’unico modo per imparare è sbagliare. Chi non fa non sbaglia, ma neanche impara. Quindi sono abituato a non preoccuparmi dell’errore e a circondarmi di persone più giovani, che sono all’inizio ma sono mosse da qualcosa di primordiale, di essenziale, che i “vecchi”, uso un termine forte, non hanno più perché l’hanno perso nella monotonia della vita costruita. Hanno l’entusiasmo, e l’entusiasmo è la divinità che ci abita.
I giovani sono la manifestazione della divinità, sono folli, sono geniali, e quindi bisogna dare voce a questa età, circondarsi di questa energia per creare una prospettiva. Poi loro faranno le loro scelte nel mondo.

Però se pensiamo che la capacità creativa avviene soprattutto tra i 15 e i 26 anni, e le più grandi scoperte sono state fatte in quella fascia d’età, noi invece cosa facciamo quando un ragazzo ha quell’età? Non gli diamo opportunità, non gli diamo voce in capitolo, non gli diamo ruoli di responsabilità perché non ci fidiamo. E parlo dei miei coetanei. È una cosa agghiacciante, e così anche in politica.
Questo comporta che quando si perde l’entusiasmo si invecchia, si perde il bambino interiore, e si finisce per fare giochi di potere, la guerra e cose terribili, che vediamo compiere dai governanti di tutto il mondo. Invece ci sono pochi, rarissimi anziani che mantengono viva quella scintilla. Bisogna circondarsi di persone che hanno già fallito, di giovani, dare spazio ai ragazzi perché le idee e la visione le hai da giovane, poi si perdono.

Io non cerco buyer, bensì partner, soci, a cui vendere solo una quota percentuale della scultura.
È più interessante. Così creo opportunità” Arte e impresa, sono due parole che non siamo abituati a sentire nella stessa frase, quasi come se la seconda togliesse poesia alla prima. Invece lei ne parla e anche ha condiviso alcune scelte di percorso. Ce ne vuole parlare?

Realizzare un museo non è semplice. E ancor più difficile è rispondere a questa domanda:
Come può un giovane artista sconosciuto, partendo da zero e senza alcuna risorsa economica, diventare collezionista e manager delle proprie opere, al fine di creare e collezionare valori che diventino il contenuto di un format espositivo che chiameremo Jago Museum?
Beh, deve letteralmente inventare un nuovo modello di business: sostenibile, coerente con le proprie ambizioni personali, sapendo che nessuno e ripeto, nessuno, per molto tempo gli darà credito.

Tutto questo preambolo per dire che, se avessi intrapreso un percorso “normale” (comunque lecito e sacrosanto), rappresentato da un mercante o da un intermediario, con l’obiettivo di trasformare la mia arte in un lavoro, quasi sicuramente non avrei mai potuto realizzare la mia visione imprenditoriale.
Oggi produco e immetto sul mercato, attraverso i miei canali, un numero limitatissimo di nuove
opere ogni anno. I progetti monumentali li condivido esclusivamente con partner già accreditati o
con collezionisti che fanno parte del nostro gruppo, perché devono essere persone con cui abbiamo
instaurato un rapporto umano profondo.

Gli speculatori non ci interessano: sono legati a ritorni immediati. Noi ragioniamo in ere, in beni rifugio. Per questo motivo, i nuovi progetti destinati alla musealizzazione non sono in vendita nella loro totalità. Offriamo invece a investitori altamente selezionati la possibilità di diventarne comproprietari al 50% nella fase progettuale, con l’obiettivo di valorizzare un bene al quale attribuiamo un orizzonte temporale di “per sempre”. Questa modalità operativa mi ha permesso, poco per volta, di affermarmi creativamente con totale libertà, senza dover chiedere a nessuno il permesso di realizzare ciò che desidero. E se nessuno acquista o partecipa? Beh, realizzo comunque l’opera, per conto mio.

Per quanto mi riguarda, poter dire di “no” è la vetta più alta. Ogni “no” rappresenta un risparmio di tempo, e il tempo risparmiato diventa un asset da investire nella creazione di un’opera più grande, magari destinata a un progetto di comunità, inserita in un contesto espositivo: un nuovo museo, appunto. Un museo la cui gestione è affidata al talento di giovanissimi che, con le loro individualità, contribuiscono al progetto, innescando meccanismi di economia circolare che si traducono nella riqualificazione di una chiesa abbandonata da decenni e che oggi, a due anni dall’apertura, ha già superato i 250.000 visitatori.

Il mio obiettivo è proteggere la mia libertà creativa costruendo, grazie anche ai pochi che vi partecipano, un sistema alternativo, sempre nuovo, scalabile e replicabile.
È semplice? Assolutamente no. Ma ne vale la pena.
Mi dà gioia avere in squadra poche persone di altissimo profilo umano, che condividono il progetto e investono le loro risorse per costruire una prospettiva culturale comune.

In conclusione, il mio ruolo nei confronti dei comproprietari, dei collezionisti e degli investitori che decidono di diventare miei partner al 50% dei progetti museali, è un ruolo di management: volto a garantire nel tempo un apprezzamento, un moltiplicatore che consenta poi, al manifestarsi di una volontà comune, di offrire l’opera all’attenzione del mercato secondario. Noi, come gruppo, conosciamo personalmente ogni collezionista, ogni partner, ogni comproprietario. Questo ci permette di mantenere una conversazione sana, meravigliosa, personale e familiare e, sul lungo termine, fa tutta la differenza del mondo.

Jago opere

L’opera “sono pronto al flagello” è stato distrutto; Il “feto abbandonato” ha subito atti di vandalismo, (e lei ha invitato poi quei ragazzi nel suo laboratorio). Mi viene in mente il Drago Vaia di Martalar, (artista che l’ha ricordata nella nostra intervista tra l’altro) che è stato bruciato intenzionalmente, ma che poi è rinato grazie ad un’intera comunità che si è attivata. Ci parla di questo rapporto tra arte e responsabilità sociale, tra arte e le persone che la vivono, non solo la guardano, ma se ne appropriano come parte delle loro vite.

L’opera d’arte intesa come oggetto ovviamente vive esattamente come l’essere umano in relazione alle dinamiche del contesto che frequenta. L’opera d’arte installata in un museo sarà soggetta a delle regole, a delle dinamiche del museo, ben inteso che il museo è anche un luogo di sperimentazione, quindi può succedere di tutto anche nel museo, e ben inteso che l’essere umano può agire o reagire nei confronti di un’opera, sia che sia esposta all’esterno o all’interno, in tanti modi diversi.

Quindi il fatto di lasciare o di installare, di abbandonare un’opera all’esterno pretende che l’artista sia consapevole del fatto che l’interazione sarà ovviamente diversa, sarà più libera, sarà più sincera, e questo deve essere inteso, interpretato come un valore.
Qualsiasi cosa accade non dovrà essere interpretata come un’aggressione, ma come un valore aggiunto che dà la possibilità di poter insistere in una narrazione, perché qualsiasi cosa accade è specchio della realtà, e l’artista stesso attraverso quell’opera installata in quella piazza, che verrà bruciata, verrà distrutta, si fa testimone di una contemporaneità che parla, che agisce, che discute, che ama, che protegge, che rigetta il contesto, i valori e le cose che gli vengono proposte o sbattute in faccia, come può essere un’opera che nottetempo viene installata in una piazza.

Detto ciò io sono grato per l’attenzione che un altro artista, meravigliosamente dotato, ha avuto nei miei riguardi, perché è uno degli esempi più illustri, questa generosità di voler citare il lavoro di qualcun altro, di cui bisogna fare inevitabilmente tesoro, quindi esprimo grande gratitudine.

Domani non ci sarò più, ma spero che mie mie opere vincano contro il tempo”. Che cos’è il tempo per lei? Angoscia? Una sfida? Un’opportunità?

Ogni tanto è simpatico e divertente scrivere delle frasi ad effetto per scherzare, generare una reazione, ma anche dire delle cose importanti e dirle con leggerezza. Il tempo è un’opportunità, soprattutto quando si ha la possibilità o si decide di utilizzarlo completamente nella sua interezza.
Il tempo della nostra vita è un asset meraviglioso e gratuito. E allora bisogna scegliere di utilizzarlo consapevolmente per che ci venga restituito qualcosa di meraviglioso che non è altro che lo specchio dei risultati che con un po’ di impegno riusciamo a portare a casa.
Per me è una grande opportunità e poi soprattutto è relativo, perché passa in fretta se si fanno cose piacevoli, e invece non finisce mai quando ci si annoia. Per fortuna però anche la noia è necessaria alla creatività, anzi fondamentale.
Quindi il tempo di vuoto invece di stare a scrollare su internet o sui social, passiamola ad annoiarci, sarebbe un grande motore per la nostra creatività”.

Vorrei concludere con lei, come concludo solitamente le interviste e le chiedo: se idealmente ci potesse accompagnare da un artista italiano con cui continuare la nostra conversazione sul senso dell’arte oggi, da chi ci porterebbe?

Secondo me, un artista straordinario che merita di essere conosciuto è Athar Jaber. È uno scultore di grandissimo talento, impegnato in una ricerca sul linguaggio davvero profonda e originale. Pur essendo italiano, porta dentro di sé molte vite e molti luoghi: è, a tutti gli effetti, un cittadino del mondo. La sua storia è incredibile e credo valga davvero la pena raccontarla.
Quello che colpisce, oltre alla sua abilità tecnica, è la sua sensibilità umana, che si riflette pienamente nelle sue opere. Ogni scultura è intrisa della sua affettività e della sua capacità di ascolto, e trasmette un’umanità rara. Per questo mi sento di suggerirlo con convinzione: in un’epoca complessa come quella che viviamo, Athar incarna un’arte che unisce mondi diversi e li restituisce con delicatezza e verità.”

Tutte le immagini del post provengono dal profilo Facebook di Jago. Per ammirare altre opere e rimanere aggiornato sul suo lavoro e le sue esposizioni visita il sito ufficiale Jago.art

Post a cura di: Laura Cappellazzo

Laura Cappellazzo

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