Intervista a Filippo Tincolini: scolpire il marmo tra memoria e futuro – STUDI D’ARTISTA

19/12/2025
Autore: Caterina Stringhetta
Tag: Interviste

Ci sono artisti che non si limitano a scolpire la materia: scolpiscono visioni, pensiero, possibilità.
Filippo Tincolini lavora nel cuore vivo del marmo, a Carrara, in uno studio scavato nella montagna.
Con questa intervista, Studi d’artista incontra un altro artista straordinario, pubblicando un dialogo profondo, potente, fatto di silenzi, tecnologia e poesia.

Tincolini ci parla di eredità, innovazione, del peso della materia e della leggerezza delle connessioni umane.
Un racconto da leggere con lentezza, come si osserva una scultura che sa trattenere il tempo.
E se ti sei perso l’intervista a Jago, lo scultore che guarda al futuro ma non ha paura dei fallimenti e di rischiare, ti consiglio di recuperarla: insieme a questa compongono un dittico imperdibile sulla scultura contemporanea.

Filippo Tincolini studio artista

Filippo Tincolini nel_ uo studio. Camazotz, marmo policromo bianco, Carrara. Courtesy Filippo Tincolini Studio. Photo credit Laura Veschi

STUDI D’ARTISTA

Viaggio in Italia alla scoperta degli artisti contemporanei

a cura di Laura Cappellazzo

Quando si nomina Carrara, immediatamente ci si immagina il suo marmo bianco e le più celebri sculture realizzate con esso dei grandi maestri del passato (Nicola Pisano, Michelangelo e Donatello, solo per iniziare). Ma il pensiero va anche alle maestose opere architettoniche (dal Duomo di Pisa, passando per il Foro Italico a Roma, volando fino al Oslo Opera House e arrivando fino al Campidoglio degli Stati Uniti d’America) realizzate con questa pietra bianca che ha reso celebre in tutto il mondo un luogo italiano al confine tra Toscana e Liguria.

Fu il poeta romano Claudio Rutilio Namaziano, intorno al V secolo d.C., a raccontare in versi la meraviglia provata quando in viaggio, si trovò di fronte alle Alpi Apuane e al marmo bianco che le macchiava di bianco. Un dono della natura che l’uomo con creatività e genio artistico, ha saputo trasformare in opere dal valore eterno.

Gli artisti che al giorno d’oggi si avvicinano alla lavorazione del marmo, e in particolare al marmo di Carrara, devono sentirsi una bella responsabilità sulle spalle, sapendo la portata dell’eredità artistica che questo materiale si porta appresso! Eppure c’è chi ha preso questa responsabilità, pesante quanto un macigno per restare nella metafora, e l’ha trasformata in un ponte tra l’arte classica e le inquietudini e i quesiti dell’arte contemporanea. Oggi quindi, andiamo a conoscere Filippo Tincolini, e ci facciamo raccontare da lui la sua arte.

NELLO STUDIO DI FILIPPO TINCOLINI

Buongiorno Filippo e grazie per averci voluto incontrare. La nostra rubrica si intitola “Studi d’artista”; il suo laboratorio si trova proprio a Fantiscritti, in provincia di Carrara. Partiamo da qui. Può descrivere ai nostri lettori il suo studio? Com’è il luogo dove crea e lavora?

Il mio studio è un laboratorio dentro una montagna. Non è una metafora: è realmente circondato dal marmo. Fantiscritti è un luogo che non ti permette di dimenticare dove sei. Ogni giorno entri, senti il rumore delle cave, la polvere nell’aria, il vento che scende dai canaloni. Il mio spazio è essenziale, quasi rude: robot, blocchi enormi, luci fredde, tavoli pieni di frammenti. È un luogo dove l’idea incontra la massa, e non sempre vince l’idea. Ci tengo che il mio studio non sia “bello”: deve essere vero. Uno spazio che ti costringe a essere onesto con quello che stai creando.

Lei ha frequentato fin da ragazzo, numerose fonderie e laboratori dedicati al marmo a Pietrasanta, ha studiato Scultura all’Accademia di Belle Arti di Carrara e poi ha aperto il suo laboratorio nel 2001. Ma come fa un ragazzo ad innamorarsi del marmo, come mezzo di espressione artistica?

Ti innamori del marmo esattamente come ti innamori di qualcosa che potrebbe schiacciarti. Da ragazzo vedevo adulti che faticavano, che sudavano, che trattavano la pietra come una presenza da rispettare. Era un mondo duro, non romantico. E proprio questo mi ha attirato: il marmo non ti lusinga, non ti seduce. O lo affronti o ti rifiuta. A un certo punto ho capito che dentro quel materiale così severo c’era una forma che aspettava solo di essere liberata. E ho deciso che quello sarebbe stato il mio dialogo con il mondo.

Che ostacoli ha incontrato all’inizio, per farsi notare e far conoscere le sue opere al mondo? Ha patito il confronto con la grande tradizione italiana del marmo?

L’ostacolo più grande è sempre lo stesso: l’indifferenza. Non importa quanto sia grande la tua idea, all’inizio non ti guarda nessuno. Il confronto con la tradizione non l’ho patito, l’ho usato. Sapevo benissimo che misurarsi con Pisano, Donatello o Michelangelo è impossibile — ma è proprio questo che libera. Non devo superare nessuno, devo trovare il mio posto nella stessa lingua della pietra. E per farmi notare ho fatto l’unica cosa che funziona davvero: continuare, anche quando sembra inutile.

La ricerca è uno dei suoi fattori distintivi: “un dialogo continuo tra materia e tempo” ho letto in una sua intervista. Può approfondire con noi questo tema?

La materia è ciò che abbiamo davanti. Il tempo è ciò che ci sfugge. Quando scolpisci, ti muovi esattamente tra questi due poli: un materiale che resiste e un tempo che scorre. Il marmo ha una memoria geologica, porta dentro ere che noi non possiamo neanche immaginare. Io intervengo per pochi giorni, settimane, mesi… una durata ridicola. Il mio lavoro è proprio questo: lasciare un segno umano dentro qualcosa che nasce da un tempo disumano. È un dialogo, a volte una lotta, a volte una resa. Ma durevole.

Filippo Tincolini, Flowered Venus Head

Filippo Tincolini, Flowered Venus Head. Photo credit Laura Veschi 

Mi allaccio qui al progetto espositivo Human Connections, un progetto d’arte diffusa in cui le sculture hanno riempito lo spazio urbano di Pietrasanta. Qui il marmo è stato il mezzo attraverso cui lei ha creato connessioni tra mitologie antiche e contemporanee. Iniziamo da qui: come si fa a collegare divinità antiche con personaggi pop come gli Avengers?

Si fa smettendo di trattare il mito come un oggetto da museo. Gli antichi eroi erano i supereroi del loro tempo: figure ingrandite, potenziate, idealizzate. Oggi le mitologie contemporanee vivono nei cinema invece che nei templi. La logica è la stessa: l’uomo proietta fuori ciò che non riesce ad accettare dentro. Io ho solo messo nello stesso spazio due narrazioni che parlano della stessa cosa: la fragilità dell’essere umano davanti al proprio desiderio di essere più forte.

Mi ha poi colpito il fatto di voler portare fuori le opere: non le persone che si spostano per ammirarle in un museo, ma le statue che si spostano per incontrare le persone. Vincere la pesantezza della materia, per prestarsi all’incontro… forse anche per noi umani è così?

Sì, esattamente così. La scultura è pesante, ingombrante, scomoda. Spostarla è un’impresa. Ma se non lo fai, resta chiusa in un luogo dove parla solo a chi la cerca. Portarla fuori significa rimetterla nel tempo reale delle persone: nei loro percorsi, nelle loro abitudini, nelle loro giornate. La verità è che siamo tutti più pesanti di ciò che sembriamo. E ci muoviamo, comunque. Il marmo che “cammina” è la metafora più precisa dell’essere umano che prova a incontrare l’altro nonostante la propria massa interiore.

Vorrei toccare con lei anche la parte dell’innovazione tecnologica, dell’uso che lei fa della tecnologia per fare arte. Ci può parlare di questo? Io mi immagino le espressioni di qualche “purista” che non solo vede gli Avengers (o parti di essi) riprodotti con il “sacro” marmo, ma anche viene a sapere che l’arte dello scultore non passa più solo da martello e scalpello…

La tecnologia non cancella la mano, la prolunga. Chi pensa che la scultura sia solo martello e scalpello vive in un’idea romantica che non è mai stata vera: gli artisti hanno sempre cercato gli strumenti più avanzati del loro tempo. Oggi è la robotica. Il robot esegue, io decido. La parte più importante — il senso, il rischio, la finitura, la poesia — arriva solo dopo che la macchina ha smesso di muoversi. L’idea che il digitale sia una scorciatoia è il vero fraintendimento: la tecnologia amplifica l’artigianato, non lo elimina.

A noi piace terminare le nostre interviste chiedendo all’artista, se c’è un collega italiano che ci vuole presentare, qualcuno insomma che secondo lei in questo momento vale la pena conoscere e far conoscere. Qualcuno che magari rispecchi questo suo gusto per la ricerca e per continuare a fare dell’arte una forma di indagine sull’umanità. In che studio d’artista ci porterebbe?

Porterei i vostri lettori nello studio di chi, come me, cerca di spostare la scultura fuori dal suo recinto. Non farò un nome mainstream: preferisco indicare artisti che lavorano nel silenzio, con una coerenza feroce. Vi porterei da chi sa ancora sporcarsi le mani, da chi lotta con la materia senza paura di fallire. Perché oggi il talento non basta: ci vuole resistenza. E chi resiste, merita di essere visto.

Jago opere

Tutte le immagini del post provengono dal profilo Facebook di Jago. Per ammirare altre opere e rimanere aggiornato sul suo lavoro e le sue esposizioni visita il sito ufficiale Jago.art

Post a cura di: Laura Cappellazzo

Laura Cappellazzo

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