Le opere di SMOE: storie a cielo aperto scritte con il colore – STUDI D’ARTISTA
Continua il viaggio negli studi degli artisti contemporanei italiani. L’ultima volta abbiamo conosciuto Anarkìkka nel suo studio, mentre oggi ci prepariamo a conoscere SMOE.
Muralista, autodidatta, artista militante e sperimentatore instancabile, SMOE è una voce potente dell’arte urbana contemporanea. Dai suoi primi graffiti negli anni ’90 fino a “Necesse”, una delle opere murali più imponenti realizzate a Milano, il suo lavoro è un intreccio di ricerca, necessità comunicare e relazioni umane.
In questa intervista SMOE ci apre le porte del suo studio e della sua visione, dove arte e comunità si intrecciano in ogni pennellata. Preparamoci a salire sulle impalcature dell’immaginazione.

SMOE, COPABAY
STUDI D’ARTISTA
Viaggio in Italia alla scoperta degli artisti contemporanei
a cura di Laura Cappellazzo
Con l’intervista di oggi torniamo a Milano, città metropolitana perfetta per chi vuole farsi notare e altrettanto per chi si vuole nascondere. Gli artisti murali, più in generale gli street artists, sono noti per sapersi muovere come abili funamboli, tra la visibilità delle loro opere e l’invisibilità delle loro persone. L’arte murale moderna, nasce proprio dall’esigenza di farsi vedere, di raggiungere il numero più grande possibile di persone con un messaggio, senza attendere che siano esse a cercarla, ma andando lei a proporsi nei luoghi più impensati: luoghi della quotidianità, di periferia, o angoli delle grandi città in cui ci si aspetta di trovare ben altro che della bellezza.
Le opere di SMOE si inseriscono perfettamente in questa cornice urbana: “la sua arte cerca sempre di coinvolgere le persone e il territorio attraverso la narrazione, affrontando soprattutto temi di rilevanza sociale e culturale” si legge infatti nelle pagine del suo sito web smoe.it.
Incontriamo allora questo artista, che nel 2020 ha anche fondato uno studio collettivo, in cui lavora in team, sui lavori più grandi e sulle commissioni più complesse.
NELLO STUDIO DI SMOE
Buongiorno SMOE e grazie per aver accettato l’invito a farsi conoscere dai nostri lettori, grazie al suggerimento di Pablo Pinxit, suo collega e amico. Cominciamo dal suo studio, ce lo può descrivere fisicamente? Siamo abituati a vedere gli street artists al lavoro sulle impalcature o in ambienti esterni: ci può aiutare a capire com’è il suo spazio di lavoro indoor?
Il lavoro in studio in realtà è parte integrante del lavoro di un muralista, in primis perché ci sono una serie infinita di materiali da stoccare, e poi per conservare tutta la produzione, tele, stampe, installazioni, nonché per realizzare il lavoro che viene poi venduto al cliente, o almeno nel mio caso è così, un bel casino (ride ndr). Il mio studio è abbastanza grande, con molta luce, per me è un luogo importante dove posso sperimentare liberamente e trovare la giusta concentrazione. Poco tempo fà ho realizzato una tela 3x2m per una commissione, ho potuto montare e smontare il telaio imponente grazie al soffitto alto quasi 4 metri. Allo stesso tempo in studio tengo i corsi di disegno, i meeting con i miei assistenti e tanto altro ancora. Ogni tanto faccio anche degli open studio, quindi una buona occasione per venire a curiosare…
Come nasce un’opera di svariati metri quadrati? Da dove si parte? Lei, da dove inizia?
Tutto dipende sempre da come è impostato il progetto. Ad esempio, si può realizzare un’opera per una grande multinazionale partendo da un brainstorming con il cliente, si fanno delle proposte e poi si inizia a progettare il murale dagli schizzi a matita fino ai rendering. Altre volte invece, come è accaduto per Necesse o per Limitless, il progetto viene presentato direttamente da me ai vari enti. Si tratta di opere autoriali con un messaggio politico oppure sociale, alle quali lavoro durante gli anni che propongo con un’organizzazione avanzata ed una parete già in essere. Poi ci sono le Open Call come 100 Gianni Rodari realizzato per il bando pubblico “Piazze Aperte” (Comune di Milano) dove viene richiesto un lavoro specifico e l’artista presenta il progetto con una serie di tavole, bozzetti e studi dell’area in cui realizzare l’opera. Ovviamente bisogna disegnare molto ed essere creativi, poi con l’esperienza si sviluppano metodi diversi e si affina sempre di più la tecnica di progettazione. Altre volte invece, se ho una parete disponibile e voglio creare qualcosa di spontaneo mi basta preparare qualche schizzo a matita e dipingere in totale libertà sui muri disponibili. In questo caso non c’è nessun committente, ma solo l’urgenza di esprimersi.
Quando ha capito che i grandi spazi, le superfici enormi, erano il suo luogo artistico di espressione?
Direi sin dagli esordi. Quando ho iniziato dipingevo a spray direttamente su muro, magari portandomi qualche bozzetto disegnato con i pantoni, non usavo programmi di grafica e non avevo molti mezzi. All’epoca era più un movimento del quale mi sentivo parte e dovevo farmi strada mostrando il meglio come potevo. Era il 1997 ed ancora la street-art come la conosciamo oggi non esisteva. In Italia chi dipingeva i muri erano principalmente i writers, più o meno in modo illegale. Con il mio gruppo avevo trovato un grande muro di cinta su una strada pedonale lungo più di 100 metri, era diventata la nostra All Of Fame, come si dice in gergo. Sarebbe un luogo dove i writer dipingono i loro pezzi migliori, perché sono pareti per così dire autorizzate, quindi si ha tutto il tempo possibile per fare un lavoro dettagliato. E’ stata una palestra artistica che mi ha fatto fare molta esperienza. In seguito ho evoluto in modo naturale verso la street-art cambiando soprattutto i soggetti delle mie opere. Ancora oggi mi sento parte di un movimento che ha dimensioni globali. E’ una realtà che si muove fuori dal mercato dell’arte. Non ci sono gli schemi delle gallerie o dei curatori. Arriva tutto in modo diretto, attraverso reti di conoscenze fatte in giro per le capitali del mondo e anche grazie ad internet. Ma l’avvio della rivoluzione artistica che vediamo oggi nelle nostre città è stata lanciata negli anni ‘70 dalla cultura del writing dai ragazzi e dalle ragazze del Bronx a New York. Per me è stato importante iniziare sin da subito a confrontarmi con le pareti e la realtà artistica del writing della fine degli anni ‘90 per poi seguire l’evoluzione del muralismo moderno.

SMOE, Emigranti. 2017
Quando nasce SMOE come artista? Ha studiato, ha imparato da qualcuno, come si è formato…
Sono un autodidatta che non si è mai fermato. Ho provato a fare lezioni di pittura e sono durato un giorno. A 18 anni andai all’accademia per provare ad iscrivermi ma abbandonai l’idea appena entrato. Ho imparato empiricamente giorno per giorno. Venendo dalla strada e dalla libera espressione non avrei sopportato la figura di un docente o di un maestro che mi indirizzasse verso uno stile. Per me dipingere è un’espressione di libertà e di autodeterminazione. Ho impiegato sicuramente più tempo a perfezionarmi però ho mantenuto la mia autenticità che è stata la motivazione sin da subito. Per quanto riguarda lo studio devo dire che non si smette mai di farlo. Nel mio caso è così, osservo molto gli altri artisti, mi aggiorno costantemente e sperimento con ogni mezzo possibile. Persino andare ad una mostra è fonte di studio ed ispirazione. Poi dal punto di vista personale i miei studi universitari sono stati molteplici, dall’architettura alle scienze naturali. Mi ritrovo molto in quello che sostiene il grande Miyazaki, laureato in scienze politiche; “Se vuoi raccontare il mondo prima devi conoscerlo”.
I suoi colori sono molto particolari: mi ricordano più le tonalità gentili della natura, che l’impatto artificiale della città. È voluta questa scelta? O si tratta di un’affinità personale (o di una nostalgia) che riporta nella tua opera?
I colori sono fondamentalmente lo strumento con il quale irrompo nel tessuto urbano. Preferisco distaccarmi dalla realtà e creare dimensioni nuove. Quando preparo un lavoro in outdoor mi soffermo poco sui colori del contesto, a parte alcune occasioni. Per me il muralismo fa il cemento più leggero. Quindi se riesci a scorgere questa sensibilità nei miei lavori vuol dire che in qualche modo sto riuscendo a comunicare qualcosa di sensato (ride ndr).
Gli artisti si affezionano alle proprie opere? Ce n’è una in particolare, un luogo, a cui è rimasto particolarmente legato?
Credo sia sempre meglio imparare a lasciar andare. Poi figurati, nella street art molte opere hanno vita breve. Per questo negli ultimi anni mi sono dedicato ad una ricerca approfondita dell’utilizzo dei materiali, sperimentando con diversi prodotti e marche. Da questo studio è nata una collaborazione con il dipartimento di chimica del Politecnico di Milano per la conservazione delle opere pubbliche in esterno. Una delle mie opere è sotto monitoraggio dal 2021 ed abbiamo stimato che per il trattamento e per l’impiego dei materiali utilizzati l’opera avrà un emivita di 10 anni conservando la brillantezza attuale. Poi nello specifico più che legato all’opera in sé mi restano fantastici ricordi delle persone con cui ho collaborato e del pubblico che si è affezionato a me e ad il mio lavoro. Questo è uno degli aspetti più interessanti della street-art, il contatto con il mondo esterno e la relazione che si crea con l’artista quando realizza un’opera in strada.

SMOE STUDIO, 100 GIANNI RODARI
E invece, qual è l’opera che le ha richiesto di più… che è stata più difficile da realizzare o materialmente, o da un punto di vista emotivo/esperienziale?
Beh senza colpo ferire rispondo subito dicendoti che è stata Necesse. Un cantiere durato 3 mesi e mezzo, per dipingere 1300 metri quadrati di superficie, 3 assistenti, 2 fotografi, 1 videomaker, 2 associazioni di quartiere, 16 partner sostenitori dell’opera, 3 piattaforme semoventi, tanta responsabilità. Necesse è stato un viaggio artistico senza dubbio, data la sua vastità, però più di tutto è stato un viaggio sul piano umano, sia per i contenuti che ho trattato che per il periodo in cui è stato realizzato, in piena zona rossa nel 2021. Verso la fine del progetto ero esausto, dimagrito. Dovevo fare lunghe pause durante la giornata per riacquistare le forze. Poi una volta finito tutto il murale, dopo una bellissima inaugurazione nel parco di via L. di Breme insieme al sindaco Sala, ho potuto recuperare la forma mentale e fisica. Spesso durante le settimane successive al completamento del murale cadevo in una stasi narcolettica. Mi addormentavo ovunque. E’ stato un lavoro incredibile che ha richiesto molte energie e concentrazione. Tra l’altro sto lavorando ad una pubblicazione del progetto per festeggiare i primi 5 anni dalla realizzazione. Uscirà il booklet prossimamente con una serie di interviste.
A differenza di altri artisti, che lavorano sempre da soli, lei hai scelto il gruppo, la collaborazione… a volte anche inusuale, come l’esperienza con i ragazzi del carcere di S. Paternostro di Catanzaro. Fare arte e fare comunità con lei, sembrano due azioni legate, è così?
I workshop sono diventati parte integrante del lavoro. Ne realizzo diversi all’anno, con i bambini, con i ragazzi e anche con gli adulti. Non c’è un limite di età, diventa arte partecipata al cento per cento. Cerco sempre di portare le persone fuori dagli schemi a cui sono abituati e provo a farli sentire liberi, a farli esprimere oltrepassando se stessi. Con i bambini è più facile perché si sa, non hanno troppe inibizioni. Mentre con gli adulti è un’esperienza diversa. Ho realizzato workshop di diversi formati e su diversi supporti. Alcune volte anche con 100 bambini. L’esperienza del carcere è stata formativa sia per me che per i ragazzi. Realtà difficile seppur piena di spunti. Attualmente sto portando avanti un lavoro di team-building con 13 persone che si stanno immedesimando nell’artista e stanno esplorando il mio modo di lavorare. Abbiamo pensato in diversi incontri i contenuti di un bozzetto che diventerà un’opera murale 10x10m nella loro sede di lavoro. Anche questa per me è prima di tutto un’esperienza umana che si trasforma in esperienza di lavoro quando osservo con occhio più tecnico il mio approccio.
Che senso ha per lei fare arte?
L’arte è il motore dell’umanità. H. Sapiens ha comunicato con l’arte fin dagli albori, mi viene in mente la Sala dei Tori nella grotta di Lascaux, in Francia, che arriva a noi quasi 17.000 anni dopo. La musica, la pittura e tutte le forme di espressione artistica sono la nostra manifestazione pacifica di linguaggio universale. Non serve tradurre, non serve approvazione né burocrazia. Ci si parla da un cuore all’altro senza intromissioni di potere. Persino le più alte forme di sfida artistica celano sentimenti di amicizia profonda come quella tra P. Picasso e A. Modigliani. L’arte, come la natura, possono darci l’armonia e l’equilibrio che nelle nostre megalopoli diventano spesso materiale precario. Forse per questo andiamo a teatro o al cinema, oppure banalmente ai concerti. Per ricongiungerci tra di noi e per ritrovare questo equilibrio. Per me fare arte è un processo quotidiano, me ne nutro e di conseguenza ne sono fautore. L’arte è in tutto, nei gesti, nelle risposte, nei rapporti. Va coltivata e raffinata. Ma allo stesso tempo è follia e genio. Ho capito l’importanza dell’arte solo recentemente, visitando i cimiteri monumentali. Solo lì dentro ho capito quanto sia importante la testimonianza del nostro passaggio, delle nostre vite e delle storie di ognuno di noi. L’arte va oltre la morte, ci universalizza, ci identifica e ci accomuna.
Concludiamo, se le va, con il nostro gioco finale, in cui chiediamo all’intervistato di indicarci un altro artista da conoscere. Chi ci farà a scoprire SMOE, e dove ci porterà?
Con molto piacere vi indico un artista bergamasco che lavora molto con l’incisione, la pittura ed il muralismo. Si chiama Kevin Niggeler e sta emergendo a Milano .
Post a cura di: Laura Cappellazzo

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In questo blog non ti spiego la storia dell’arte, ma racconto le storie di cui parla l’arte